I funerali di Piero sono avvenuti ieri. Per le strade del cimitero serpeggiavano le memorie dense di chi non c'era più, improvvisamente i nomi sulle lapidi mi suonavano così riduttivi: PIERO MACCAFERRI, 1922 – 2015, una targa e una timida foto. Ma si può ridurre davvero un uomo a questo? Il nome veniva svuotato di qualsiasi identità e nella mia testa un martellio caldo mi ricordava le sue parole di quando lo andavo a trovare su alla sua casa a Rusino.
''Non andare in America, nani, io sono stato in Russia, Croazia, Austria… Ma in America, lì non ci andrei mai." E ripensando a questa frase, leggendo il suo nome, guardando i suoi occhi azzurri appena sorridenti nella foto, mi dissi che quella di Piero era una storia da non dimenticare. La storia di un uomo che era tornato a piedi due volte dalla Russia, di un ragazzo sopravvissuto ai campi di concentramento e ai rastrellamenti.
Rusino era, ed è rimasto, un grappolo di case incorniciate da una chiesa barocca e un castello affacciato sulle colline parmensi. Per i ragazzi del paese, prima della chiamata alle armi, dire Parma era come dire le Colonne d'Ercole, il limite massimo a cui si potessero mai spingere. Eppure nel luglio 1942 Piero era lì, su un treno che sarebbe passato da Gorizia via Tarvisio, poi avrebbe attraversato l'Austria e una Varsavia distrutta dai bombardamenti. In Ucraina si dovettero fermare: in Russia avevano i binari di grandezza diversa rispetto al resto d'Europa. Ed ecco che il tedio del treno mutò improvvisamente nella fatica della marcia e nella lotta contro il gelo. In quei momenti, mi raccontava, pensava spesso a suo fratello in Grecia: lui sì che era stato fortunato, mandato in un paese dove la guerra non c'era (o così credeva). Ad accompagnarli erano solo il passo cadenzato dei muli e i tintinnii dell'armamentario di giorno, e di notte i respiri dei compagni ai quali si avvinghiava per combattere il gelo. ''C'era anche un mio amico della montagna, lì,'' mi diceva ''aveva il compito di condurre le slitte, che è il miglior modo per spostarsi in Russia. Però ci potevano viaggiare solo gli ufficiali, e i Russi questo lo sapevano.'' Lo ritrovò tre giorni dopo, poco lontano da una slitta mitragliata insieme agli ufficiali morti, durante la battaglia di Nikolajewka. Restarono lì quasi un anno. Poi, nel ‘43, la ritirata.
Inizia qui la vera storia di Piero. I Tedeschi avevano mollato i soldati italiani a piedi, quarantamila uomini in marcia tutti con un unico pensiero: sopravvivere e tornare a casa. Ma nonostante le coperte intorno alle gambe la notte era spietata e i geloni prendevano i piedi e le articolazioni di molti. ''Fu una russa ad aiutarmi''. Gli offrì un intruglio di cui non seppe mai dirmi la composizione; ''puzzava ed era caldo'', era il massimo che aggiungeva, “però fu quello a salvarmi dal freddo”. Camminò quasi un mese senza mai fermarsi fino a Bologna. Per quanto fosse giovane e forte le gambe e la mente iniziarono a cedergli, così decise di prendere un treno per Parma. Mentre il convoglio passava accanto alle acque dell'Enza, pensò che se fosse sceso lì avrebbe raggiunto più facilmente il suo paese a piedi, e così fece. Ma come Ulisse, giunto a Itaca, fu ricacciato indietro dai venti di Eolo e dovette penare altri anni per tornare, così anche Piero, tradito dai suoi vecchi alleati tedeschi, fu catturato in un rastrellamento a due passi da casa.
Ed eccolo portato di nuovo lontano, nella Germania nord-orientale. Durante quel periodo fece conoscenza con Katerina, una giovane prigioniera russa. Cercava di aiutarla in ogni modo a riempire in tempo le casse di patate: lui con due o tre carichi completava l'opera e la mole di lavoro era meno per entrambi. Fu un periodo faticoso e desolante, caratterizzato solo da due parole: paura e lavoro. Ma un giorno successe una di quelle cose a cui solo la guerra può trovare un senso: dalla prigionia a cui era stato costretto dai suoi alleati tedeschi venne salvato dai suoi nemici russi.
Fu riportato in Russia, come prigioniero, ma grazie alla deposizione di Katerina riuscì a essere liberato…e ricominciò il viaggio. Riattraversò quell’Europa così diversa da quella di adesso, con mezzi di fortuna e tanta determinazione. La voglia, il bisogno di tornare a casa erano ormai più potenti di qualunque treno. E ci riuscì.
Nell’aprile del ’45, finalmente, tornò in Emilia e rivide il suo paese, solo per scoprire che l'anno prima i Tedeschi avevano bruciato l’intero abitato. C'era da ricostruire tutto, e alla ricostruzione dovette pensarci da solo perché la guerra alla fine era arrivata anche in Grecia e si era portata via suo fratello.
Ma poco per volta Piero ricostruì tutto, perché Rusino è un borgo di pietra e come si dice dalle nostre parti la pietra è dura, a sbatterci contro poco per volta si diventa duri allo stesso modo. Nelle sere d'estate, mentre scrutavamo insieme la valle, Piero mi insegnava come la vita ti possa scaraventare improvvisamente dall'altra parte del mondo. Ma l'importante è che sia un posto da cui tu possa tornare a piedi, perché un modo comunque lo trovi. "Se c'è di mezzo il mare sei fregato: non lo puoi attraversare a piedi."
Ho salutato la tomba di Piero e tutte quelle che incontravo lungo la strada per uscire dal cimitero: tutti quei piccoli nomi, con le loro grandi storie. Sicuramente non è stato un addio ma un arrivederci, perché anche se adesso sono pronta a partire mi ricorderò sempre di non far intercorrere mai e poi mai, tra me e Piero, il mare.