Al tempo, era il 1944, vivevamo ancora nella vecchia casa di campagna a San Vito, una frazione di Spilamberto in provincia di Modena.¬¬ Era una grande casa, con stalla, pollaio e fienile, a pochi passi dalla strada che portava al paese. Si percorreva un viottolo erboso e si saliva sulla strada bianca, che correva dritto fino al piazzale della chiesa. Attorno, poche case e molti campi coltivati.

Io ero l’ultimo di quattro fratelli. Ma allora in casa eravamo rimasti solo in quattro: io, mia madre, mio padre e mia sorella Anna, di pochi anni più di me. Mario e Giuseppe, i miei fratelli più grandi, erano già partiti da tempo per il fronte. C’era la guerra e c’erano i tedeschi e tutte le sere, a tavola, mamma ci faceva dire una preghiera, che Mario e Giuseppe tornassero sani e salvi. Da quando erano partiti, parte del loro lavoro era toccato a me. Mio padre mi aveva affidato tutti gli animali di casa: le galline, l’oca, la capretta e soprattutto il maiale. Ero molto orgoglioso di questo, ma era anche una fatica. D’altra parte, non andavo più a scuola e avevo un sacco di tempo libero. I tedeschi l’avevano requisita, per farci il quartiere generale e gli alloggi degli ufficiali.

Proprio del mio maiale vorrei raccontare. Mio padre l’aveva comprato piccolino alla fiera di Spilamberto, con gli ultimi soldi rimasti. Io mi ci ero affezionato subito. L’avevo chiamato Norberto, come il mio compagno di classe preferito delle elementari, che non vedevo da tanto, era sfollato da qualche parte con la famiglia all’inizio della guerra. Mio padre mi aveva ordinato di imbottirlo di tutto il cibo che potevo trovare, avanzi, verdure, bucce, radici e di non farlo vedere a nessuno, perché se i tedeschi l’avessero trovato l’avrebbero sequestrato e usato per sfamare i loro soldati. Da allora, avevo una gran paura dei tedeschi e quando li incrociavo per strada o alla domenica fuori dalla chiesa, abbassavo sempre lo sguardo, perché mi sembrava che mi guardassero sospettosi, come se sapessero di Norberto.

Dopo il Natale – un altro Natale triste, senza Mario e Giuseppe e con la mamma che piangeva – mio padre mi disse senza troppi giri di parole che alla prima giornata di freddo avremmo ucciso Norberto. Mi dispiacque, ma ero abbastanza grande per capire e la fame era tanta. Ed ero eccitato al pensiero dell’esecuzione, anche perché andava fatto di nascosto, la sera dopo il tramonto, per essere sicuri che nessuno vedesse. Nessuno di noi sapeva uccidere il maiale, era un’operazione delicata. Gino, il norcino del paese, era in guerra pure lui. Così arrivò suo padre, un vecchio curvo e un po’ traballante sulle gambe, che al tempo gli aveva insegnato il mestiere. Noi eravamo tutti sull’aia ad aspettarlo, io, mio padre e Anna; mia madre era dentro, a cuocere la polenta. Ricordo la scena come fosse adesso. Il vecchio si avvicinò a Norberto con un lungo coltello sottile. Gli accarezzò la testa, poi con un colpo secco infilò la lama nel collo. Ma non ci mise abbastanza forza e il povero Norberto, invece di crollare, si buttò a correre per il campo, impazzito e urlante, con il coltello ancora piantato nel collo.

Il vecchio urlò, mio padre imprecò, Anna corse a chiamare la mamma. Poi tutti ci buttammo all’inseguimento, ognuno in una direzione diversa, ma Norberto era scomparso: era sera presto, ma era già buio pesto. Non vedevo nulla, ma ebbi un presentimento. Cominciai a correre nel campo verso il vecchio gelso sul bordo della strada. Ricordavo che d’estate, ogni tanto Norberto mi scappava per andare a mangiarsi le bacche di gelso cadute e tornava col muso tutto impiastricciato di sugo viola scuro. Correndo chiamavo “Norberto! Norberto!”, come se potesse rispondermi. E infatti all’improvviso sentii un debole grugnito. Norberto era sotto il gelso, sdraiato: morì quando mi chinai su di lui, quasi per abbracciarlo.

Stavo per chiamare mio padre, quando la voce mi si strozzò in gola. Alle mie spalle, nel buio, due voci dure parlavano in una lingua che non capivo, ma ormai conoscevo bene. Due soldati tedeschi venivano verso di me, cercando nel buio con una torcia elettrica. In quel momento il mio cuore iniziò a battere fortissimo, quasi da sfondare il petto; capii che se avessero visto il maiale per noi sarebbe finita. Decisi in un attimo: scattai in piedi, con le mani in alto e gli andai incontro. “Chi va là?!” urlò una voce in un italiano stentato, dietro alla torcia e alla canna di un mitra: ma quando mi arrivò davanti, riconobbi Franz. Era un giovane soldato biondo, che una sera c’era capitato in casa, sporco e ferito, e da solo s’era fatto fuori la frittata di dodici uova che doveva bastare per la cena di tutta la famiglia. Anche lui mi riconobbe, fece un mezzo sorriso poi spiegò qualcosa al compagno. Quello mi guardò male e fece duro: “Coprifuoco! Casa”. Io feci sì con la testa, con le gambe molli. Si girarono e vidi la luce della torcia allontanarsi sulla strada.

Quando mi ripresi, tornai al gelso, aspettai un po’ e poi mi fiondai da mio padre a raccontargli tutto. Mio padre mi disse che ero stato bravissimo, e che senza di me saremmo stati spacciati. Alla fine, riportammo a casa il maiale con il biroccio, e fummo accolti gloriosamente dalla mamma e dalla polenta fumante, che ci ripagò della fatica. Raccontai di nuovo tutta la mia avventura alla mamma e poi, mentre il papà e il vecchio cominciavano a lavorare il maiale, mi addormentai, sfinito da una giornata che non avrei mai più dimenticato.