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La libertà viaggia in bicicletta

Se qualcuno ora mi chiedesse la prima cosa che mi viene in mente, ripensando agli anni che ho passato a scuola, risponderei con un nome: “Teresa”. Teresa Vergalli, mia compagna di banco da una vita. Sin dai primi anni delle elementari ricordo le sue lunghe trecce marroni, da quando se le faceva solo per avere i capelli in ordine in classe, fino a divenire un mezzo per nascondere bigliettini partigiani tra i loro nodi.

Era nata in una famiglia contadina e, durante le lunghe ricreazioni, mi raccontava, col sorriso, che al pomeriggio aiutava il padre nei campi o la madre a filare tra le mura di casa. Suo padre era un ex combattente della prima guerra mondiale, “un eroe di guerra antifascista e socialista”, affermava lei con leggerezza, non comprendendo a fondo cosa comportasse a quei tempi, per il padre, esporsi apertamente contro il regime, nell'innocenza infantile che la contraddistingueva. La madre era delle stesse ideologie politiche del padre, ma con un carattere apparentemente più pacato. Nonostante ciò, si faceva rispettare tra le mura di casa, in un periodo in cui le donne erano erano subordinate agli uomini. Teresa raccontava che spesso la sentiva discutere con veemenza con il marito, che non si premurava troppo di mantenere le sue tendenze politiche riservate come se avesse potuto fare qualche differenza in quell’Italia oppressiva degli anni ‘30. Ricordo ancora il giorno in cui mi disse che persino era stato ad un passo dalla condanna a morte, salvato solo dalla amnistia del 1933. In quell'occasione si celebrava il decennale del regime, che paradossalmente tanto disprezzava, e questo gli permise di tornare a casa dalla moglie e dai figli, il cui minore aveva visto per la prima e unica volta il giorno in cui era stato arrestato. Adoravo sentir parlare Teresa, in ogni sua frase coglievo sempre sprazzi di libertà e desiderio di farsi ascoltare, persino in così giovane età. Era una ragazza innamorata dello studio, convinta che solo, dedicandosi anima e corpo all’imparare, avrebbe potuto compiere scelte consapevoli e sagge, che avrebbero aiutato a liberare l’Italia da Mussolini. Ogni giorno era presente in classe, per quanto talvolta esausta dopo aver dovuto badare al fratellino o aver lavorato nei campi ancor prima dell’alba, ma la motivazione la spingeva a rifiutarsi di mollare, in nome dei suoi ideali e per amore della sua famiglia. Voleva emulare il padre, essere una combattente, e ogni giorno il regime le stava più stretto. Ricordo il disprezzo con cui accolse le parole del Duce: “La donna fascista deve essere fisicamente sana per poter diventare madre di figli sani” che la portò a voler riscattare la condizione delle donne e iniziò a pregare i genitori di coinvolgerla nella resistenza. La decisione finale la prese quando le venne vietato di andare a scuola a causa della guerra e decise di stravolgere la sua vita, unendosi alla staffetta partigiana, per dare lottare per ciò in cui credeva. Quando la vidi la prima volta, sulla sua bicicletta azzurra, una mattina fuori dal mio cancello, ricordo di averle chiesto che cosa avesse intenzione di fare, sopraffatta dal timore di non rivederla mai più se non su un breve necrologio dovuto alla sua giovane età. Ed ogni volta che partiva su per le strade tra i monti, sola oppure accompagnata da qualche rappresentante partigiano, che con molto coraggio si affidava ad una ragazzina di appena diciassette anni, guardavo le sue trecce svanire in lontananza, orgogliosa di essere sua amica.

Perché lo faceva? Perché, nonostante il rischio, niente fermava la sua determinazione nell'infilare i giornali garibaldini tra le verdure nel cestino? “Reagisco alla violenza e alle angherie che stiamo subendo, i rastrellamenti, i saccheggi, gli incendi, le uccisioni pubbliche” affermava come risposta lei, seria, alle mie domande “la nostra coscienza è alimentata da queste sensazioni, è normale essere sfacciatamente antifascisti”. Parole del genere da una ragazza nemmeno maggiorenne lasciavano un impatto su tutti coloro che si fermavano ad ascoltarla, vedevano una donna in un corpo troppo giovane per una tale maturità, cresciuta in fretta per essere pronta ad affrontare la vita.

E fu proprio grazie a questo spirito che riuscì a superare la guerra, non aspettandosi mai che le cose si risolvessero da sole, ma combattendo giornalmente per ottenerle.

Quando il regime cadde, la vidi in piazza a cantare, pronta a tornare a scuola ma senza abbandonare la scena politica, dove ha lottato per le sue ideologie in associazioni come “l'Associazione delle ragazze”. Conobbe proprio in quel contesto suo marito, un uomo intelligente e rivoluzionario come lei, che la portò con lui a fare parte del partito comunista italiano di cui anche lei condivideva i valori. Ma questo non era abbastanza perché sentiva che poteva fare di più e io, con orgoglio, la spinsi verso l’insegnamento. Aveva un carattere socievole e carismatico come in gioventù ed ero sicura che sarebbe riuscita finalmente a sentirsi realizzata. Le sue lezioni erano innovative e gli studenti l’adoravano, sempre pronta ad ascoltarli e a supportarli. Attraverso i loro occhi e soprattutto alle loro orecchie, lei, inconsapevolmente, avrebbe tramandato la sua storia.